Amy Winehouse, un film che commuove

 In IL SETACCIO

Londra può fare molto male. L’ho sempre detto. Se poi sei figlia di divorziati, sei bulimica, e t’innamori di un tossico coglione, è la tua condanna. Ci ho abitato per un po’ a Londra, e non ci tornerei neanche pagata oro. Ci sono andata a diciannove anni. È buffo, perché nel mio diario di quel periodo scrivevo:

“A Londra si va a mille, molto più che a Milano. Non ci si ferma mai. La cocaina dilaga. Sembrano tutti delle mine vaganti, pronte a esplodere da un momento all’altro. Nessuno sembra “normale”. Tutti sono tossici e alcolizzati. Almeno, tutti quelli che conosco io. Sono una calamita per disadattati. Mi sento a casa. Si passano le serate tra fiumi d’alcool e canne. Londra offre tutto e niente. Non si ha neanche il tempo di capire se si è stanchi oppure no. Si può essere ciò che si vuole, ma chi non conosce bene se stesso si perde in un attimo.”

E ancora:

“Londra all’alba è magnifica. È come un fantasma che prende vita e che si cambia d’abito per il giorno. I disadattati si ritirano nelle fogne come zombie per poi tornare nelle proprie tombe e dare spazio a quegli esseri umani che devono mandare avanti il sistema.”

“Londra a volte è insostenibilmente grigia. Penso che non esista posto al mondo dove la gente sia più infelice. Pensano tutti solo a bere e a distruggersi. Ci sono sempre risse e accoltellamenti a Camden. Vedo le persone ubriache con la disperazione negli occhi. Se fossi arrivata in questa città drogandomi pesantemente, forse sarei morta. Ci vuole davvero troppa forza per vivere qui.

Sembra una cazzata, ma Londra, Camden Town, hanno contribuito molto a rovinare quella ragazza dietro il nome, quella donna, quella voce. Prima di andare a vivere a Camden, Amy Winehouse era una ragazza un po’ sopra le righe, tamarra, simpatica, timida, che voleva fare la cantante jazz e nient’altro. Solo questo. E ce la stava facendo, a un certo punto ce l’ha fatta. Ma poi è andata a vivere a Camden, e con la mentalità che aveva, con il problema della bulimia, con i genitori divorziati e disastrati che si ritrovava, è stato un attimo cadere nelle braccia di un parassita scalatore sociale tossico come Blake Fielder. L’amore per lui l’ha uccisa, l’amore per lui, per Camden e la droga. Perché a Camden ci sguazzavano, quei due. Quale posto migliore in cui passare nottate intere a bere e drogarsi? Là non si fa altro. A Londra c’è la cultura dello sballo, ce l’hanno nel sangue (la birra). Alle 17,00 si chiudono nei pub, alle 23,00 ne escono, per andarsi a rinchiudere nelle discoteche, e così ogni fottutissima sera. Certo, poi ci sono i cinema, i teatri, ma i giovani, certi giovani, quei giovani che ascoltano certa musica e hanno una certa mentalità, non ce li trovi a teatro, né al cinema, né da nessun’altra parte. Li trovi ai party a casa di qualcuno, li trovi negli squat, dove si fanno i rave. E Amy era una di quelle che andava nei pub a bere, e che preferiva andare a casa di qualcuno a fumare un po’ di crack piuttosto che andare a vedere un film mano nella mano con il fidanzato. E quindi? Che male c’è? Eppure l’hanno crocefissa. Dopo essere diventata una star a livello globale con il suo “Back to Black”, ha cominciato ad avere tutti i riflettori su di sé. E quello stronzo di Blake che l’aveva lasciata, che fa? Appena diventa famosa, torna, e lei, debole e ancora innamorata, se lo riprende, e cominciano il loro viaggio nella vita delle celebrity, in pieno stile Sid & Nancy, anche se di punk e di rock, Amy, non aveva proprio niente. Lei era una cantante jazz, e questo documentario vale la pena di essere visto anche solo per ricordare a tutti chi era veramente Amy. Lei non era una pop star, era una cantante jazz. Non gliene fregava niente del successo, dei grandi palchi, le è capitato di finirci, perché la gente non è così scema come crediamo. Lei aveva un dono, era un talento, e il mondo intero l’ha notato e ha cominciato ad adorarla. Però era fragile, però era bulimica già da adolescente, però viveva in quella tossica Camden, dove trovi droga a ogni angolo di strada, stava con un fidanzato tossico e buono a nulla, e si è trovata fregata. Solo Tony Bennett, quando ormai era completamente persa e alcolizzata, le ha fatto tornare il sorriso per un attimo, un istante. “Papà… Tony Bennett!”, dice Amy sbalordita rivolgendosi a suo padre, quando Bennett in persona la premia ai Grammy per il miglior disco dell’anno. E poi il duetto con Bennett, quel duetto che le farà tornare la voglia di fare musica, di fare il suo cazzo di jazz. Perché lei era una cantante jazz! E per fortuna metteranno in galera il suo amato Blake, e lei si fidanzerà con un altro, e tornerà pulita, lucida, ma quando ormai è troppo tardi. Il suo corpo è talmente provato che basterà una bevuta di troppo a ucciderla. Non reggerà, morirà, e il regista va fino in fondo. Ci fa vedere quando la polizia ha portato via il cadavere, la gente che piangeva, tutto, passo passo, momento per momento, ma con tatto, e non con sciacallaggio. Molto meglio questo documentario di quello su Cobain, non c’è paragone.

Qui c’è poesia, c’è gentilezza, c’è attenzione. Il materiale, filmini, immagini d’archivio, momenti di vita privata, foto, è stato usato con gusto, grazie anche a un montaggio sublime, che ha richiesto, non a caso, venti mesi. Il regista c’è, ma il suo tocco s’intravede appena. È Amy la protagonista, e la sua musica, anche se sicuramente si sarebbe incazzata di brutto con Kapadia. Se non fosse morta, sarebbe andata a prenderlo, lo avrebbe picchiato come un uomo e lo avrebbe denunciato. Ma è morta, e non può decidere più nulla, perché era figlia di divorziati, perché era bulimica, viveva a Camden e si era innamorata di uno stronzo.

La Universal, proprio nei mesi scorsi, forse per la prima volta nella storia della musica, ha fatto una grande scelta: ha buttato tutto il materiale inedito della Winehouse. Perché? “Scelta morale”, hanno risposto. “Il materiale era in stato embrionale, e piuttosto che farlo uscire così, abbiamo preferito gettarlo via, per ricordare la voce di Amy al meglio.”

Bene, ben fatto, e ora è giunto il momento di recuperare i bravi manager, i talent scout e mandare a quel paese i talent tv che non sfornano, non hanno mai sfornato e mai sforneranno gente come Amy. Perché? Perché a una come Amy non sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello di partecipare a un talent. Allora perché insistere? E magari, già che ci siete, care case discografiche, preparate anche un breviario su come gestire il successo. Oltre a dare all’artista, manager, produttori ecc., dategli in dotazione anche un bravo psicologo, ma uno bravo, da subito, già dal primo disco. Così magari non ci sarà più bisogno di documentari come questo a ricordare le vite spezzate di grandi artisti.

 

Due anni dopo l’uscita nelle sale di SENNA, il regista inglese Asif Kapadia -affiancato da James Gay-Rees (producer) e da Chris King (editor)- torna a raccontare la storia di un’icona assoluta dei nostri tempi.

Presentato Fuori Concorso al Festival di Cannes dove ha riscosso un enorme consenso di pubblico e di critica, AMY è il film dedicato alla tormentata voce di Back to black, Amy Winehouse, e include immagini e filmati d’archivio inediti sull’intensa e carismatica artista, scomparsa nel 2011 a soli 27 anni per cause ancora non completamente accertate. AMY restituisce così aspetti meno noti della vita della cantante, tutti raccontati attraverso le sue stesse parole e la sua musica. AMY arriverà in Italia distribuito da Nexo Digital e Good Films il 15, 16 e 17 settembre per celebrare quello che sarebbe stato il compleanno della cantante, nata il 14 settembre del 1983. 

 

 

Da Jaymag.it

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