La teoria del tutto, la recensione
Mio padre, appena sono diventata adolescente, ha cominciato a prestarmi/impormi, un bel po’ di libri che poi ho imparato ad amare incondizionatamente. Romanzi, saggi, e un giorno, quando avevo circa sedici anni, me ne passò uno intitolato “Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo”. Era di un certo Stephen Hawking. Un fisico, uno molto intelligente. Uno bravo, insomma, e lo aveva scritto in modo semplice e anche ironico, proprio per gente comune e non per gente del suo livello. Un modo per avvicinare anche uno come mio padre o una come me alla comprensione dell’universo. Lo lessi tutto d’un fiato. Ricordo che non ci capii molto, ma qualcosa mi lasciò, mi era arrivato. Non sapevo ancora che fosse disabile, ma che differenza poteva fare? Nessuna. Mi sono sempre posta molte domande riguardo l’origine dell’universo, chisiamodadoveveniamo ecc., e Hawking mi aprì gli occhi e la mente.
Di lì a breve, però, iniziai a venerare Hawking come un Dio. Inizia a informarmi, volevo saperne sempre di più su di lui e sull’universo. Lessi anche “L’universo in un guscio di noce”. Ero un po’ più grande, e lo compresi meglio.
E proprio qualche settimana fa mi è capitato di vedere un documentario del 2013 sulla vita di Hawing, raccontato da lui in persona, un documentario commovente, di grande ispirazione, un film da vedere, da non perdere, da consigliare.
Ma siamo qui per recensire un film in particolare, “La teoria del tutto”, un film che però non mi è piaciuto per niente, anzi, che mi ha fatto uscire dal cinema arrabbiata e delusa. Perché “La teoria del tutto” è di una banalità mostruosa, e non rende affatto giustizia a una personalità come Hawking. Una pellicola che sembra “I ponti di Madison County” ma con una donna sposata con un handicappato che s’innamora di un altro, ma che non lascia il marito per questioni morali, perché credente, perché donna e madre fedele che deve preservare la famiglia.
Hawking è famoso per i suoi studi sui buchi neri, è quello che ha scoperto che tutto ha avuto inizio con il Big Bang. Stiamo scherzando a farlo passare solo per un uomo che ha reso la vita impossibile alla moglie solo perché malato di una malattia gravissima e orribile, quella del motoneurone? Un uomo che sì, era uno studioso, che ha avuto tre figli, che poi si è messo pure con un’altra donna, una delle sue infermiere, Elaine Mason. Stop? Tutto qui?
Indubbia la bravura dell’attore che interpreta Hawking, Eddie Redmayne, che, infatti, è candidato all’Oscar. Pessima l’attrice che interpreta la moglie Jane, Felicity Jones. Mitica e indimenticabile Emily Watson, che compare solo per qualche minuto, e che interpreta la madre di Jane. Un Oscar a lei solo per quei pochi minuti d’interpretazione divina, perché ogni volta che recita ci fa venire subito il magone oltre a farci ricordare quel capolavoro che è “Le onde del destino”.
Hawking è l’Einstein dei tempi moderni, Hawing è da venerare e da ringraziare ogni volta che dice qualcosa con la sua voce meccanica, un uomo cui fare un monumento. Un uomo cui non hanno ancora dato il Premio Nobel solo perché, come disse Hawking stesso, individuare la radiazione di buchi neri più piccoli e caldi, non è così facile e pare non ve ne siano molti in giro. Ma se se ne scoprisse uno, glielo darebbero di corsa.
“La Teoria del tutto” delude dalla prima all’ultima scena. Strappa lacrime inutilmente, siparietti di famiglia felice insipidi e neanche emozionanti, il tutto visto dagli occhi di una donna, sua moglie, con il difetto di essere troppo sentimentale. Chiusura del film con il brano semi epico dei Cinematic Orchestra “Arrival of the Birds & Transformation”, per rendere il tutto ancora più emozionale.
Questo film non rende giustizia neanche a una donna come Jane (anche se ha avuto il benestare di entrambi i coniugi), una con le palle, una che ne ha fatte di cose con Hawking e che gli è stata compagna e moglie per venticinque anni, anche se a Hawking avevano dato solo due anni di vita. Invece qui passa solo per una donna insoddisfatta e fedifraga che però, come fosse perversa, fa sesso e fa figli con Hawking nonostante lui sia disabile, gravemente disabile.
L’infermiera, Elaine, che poi diventerà la sua seconda moglie, ne esce quasi meglio, sembra capire di stare al fianco dell’uomo più intelligente del mondo, il più geniale, un uomo che ti obbliga a metterti da parte, senza lamentarti, perché con uno così non puoi fa altro che fargli spazio e permettergli di brillare come una supernova.
Questo film, in confronto al documentario, è anche pieno di lacune, poco fedele, salta troppo di palo in frasca. Ma soprattutto, dove sono la scienza, la fisica, l’universo? Perché si vede pochissimo quest’uomo lavorare ma solo soffrire? Certo, è un film sulla storia d’amore tra Jane e Stephen, ma dopo questo film dovrebbero obbligare a vedere il documentario per capire chi è davvero Hawking. Se no ci si fa delle idee davvero sbagliate. Sembra di avere a che fare solo con un povero handicappato.
Ma poi abbiamo capito… Nei titoli di coda viene fuori che il film è basato sul libro scritto dalla moglie, Jane Wilde, “Travelling to Infinity: My Life with Stephen”. Questo film è un film sulla moglie, un film dal punto di vista di una donna, una madre, e probabilmente hanno sfruttato il nome di Hawking solo per la sua fama interplanetaria e per attirare pubblico. Lui ha venduto più di dieci milioni di copie con “Dal big bang ai buchi neri”, lei, effettivamente, non si sapeva neanche che avesse pubblicato un libro. Da questo film non si capisce cosa Hawking abbia effettivamente lasciato e cosa lascerà al mondo, all’umanità. Un uomo che ci rende fieri di essere esseri umani e che ci fa capire ogni giorno quanto può essere cara e meravigliosa la vita, e quanto la sete di conoscenza e di scoperta possa motivarci e mandarci avanti, sempre, nonostante tutto.