La recensione di “Yoga” di Emmanuel Carrère2021-07-062023-09-18http://www.dejanirabada.com/wp-content/uploads/2018/05/dejanirabada.pngDejanira Badahttp://www.dejanirabada.com/wp-content/uploads/2021/07/screenshot-2023-09-18-alle-14.06.44.png200px200px
“Yoga” di Emmanuel Carrère non è un libro sullo yoga. Chiarito questo, possiamo proseguire.
Ho visto molti insegnanti di yoga e meditazione postare sulle proprie pagine social la copertina di questo libro, e l’ho fatto anch’io. Insegno yoga, mindfulness, scrivo libri, sono una giornalista, e ho amato molto alcuni libri di Emmanuel Carrère. Ero curiosa, e in più, leggendo commenti e notizie, sembrava davvero che avesse scritto un libro sullo yoga e la meditazione. E invece no. Certo, all’inizio ne parla un po’, altrimenti non avrebbe potuto intitolarlo Yoga. In realtà, nella prima parte parla molto più di tai chi. Avrebbe dovuto intitolarlo Tai chi, ma si sa, lo yoga attira molto di più, è più famoso. L’idea di Carrère, in effetti, era proprio quella di scrivere un libro sullo yoga, anzi, “un libro arguto e accattivante sullo yoga”, che si sarebbe dovuto intitolare “L’espirazione”.
Perché questa scelta? Perché Carrère pratica da trent’anni, tra alti e bassi, nonostante lui stesso si definisca un “meditante della domenica”, e perché lo yoga vende e tira di brutto. Infatti questo libro sta vendendo molto bene, tutti ne parlano, Carrère può esserne contento, lui e il suo ego enorme (se lo dice da solo, da sempre, ne è consapevole) anche se soffre per non essere famoso e acclamato come Michel Houellebecq, che infatti dice spudoratamente d’invidiare (ed effettivamente Michel è diecimila volte meglio di Carrère, dai, ammettiamolo).
Insomma, inizio Yoga e, dopo poche pagine, riconosco in me del nervosismo. C’è qualcosa che m’infastidisce. Poi capisco: Yoga di Carrère si chiama così solo per una questione di marketing, è un libro che avrebbe dovuto parlare di yoga ma che non lo fa, e che quando sembra farlo, lo fa in modo un po’ banale e superficiale. Carrère, vantandosi, dice di meditare, fare yoga e tai chi da trent’anni, vero, ma poi deve essersi reso conto che un libro sulla meditazione era troppo pure per uno scrittore come lui, uno che in fondo si alza la mattina e fa un po’ di esercizi di stretching; uno che si siede a meditare quando si ricorda, quando gli va; uno che liquida la mindfulness con quattro parole non rendendosi neanche conto di coltivare proprio la mindfulness, e non di meditare o praticare yoga in modo “ortodosso”. Carrère non ne sa molto, e quando accenna due parole sulla mindfulness fa pure errori, scrivendo che il suo fondatore è uno psichiatra, cosa che non è, perché Jon Kabat-Zinn è un biologo.
Poi insulta pure un certo Ram Dass, “apostolo dell’LSD, che in età avanzata è diventato un vecchio guru della mindfulness”, definendolouno yogi-barbuto-vegetariano-indossatore di sandali-babbeo-imbecille-pericoloso, che scrive libri brutti, stupidi e inutili, quei libri di autoaiuto che vendono tanto. Ora, io questo Ram Dass non so nemmeno chi sia, ma sono andata a controllare e ho scoperto che era uno psicologo americano che poi si è avvicinato alla meditazione, alla mindfulness, e che ha scritto libri di autoaiuto che effettivamente hanno venduto molto, e allora colgo di nuovo l’invidia di Carrère, che ribadisce di aver passato la vita a voler diventare uno scrittore originale di grandissimo successo, e non essendoci riuscito come il suo rivale Houellebecq, c’ha voluto provare con un libro “arguto e accattivante sullo yoga” ma “intelligente”, mica come quelli di questo Dass. Peccato che Carrère, da meditante della domenica, non ha raggiunto nessuna pace interiore, nessun’illuminazione, non è nemmeno psicologo, anzi, è un paziente psichiatrico. E allora diventa chiaro perché questo libro non sia un romanzo, un libro sullo yoga, un libro di autoaiuto, perché Carrère non sa aiutare nemmeno se stesso e fa meditazione per provare a stare meglio, per cercare un’oasi al riparo dai demoni della sua mente.
Il risultato è un’autobiografia mal riuscita. E tutto perché Carrère considera -giustamente- i suoi pensieri troppo importanti, intelligenti, fondamentali, non capendo che per l’Oriente i pensieri vanno abbandonati, sono soltanto illusione, non hanno nessun peso, nessuna importanza, allontanano dalla realtà ultima, confondono, sono ignoranza, così come il desiderio, l’attaccamento. Perché tutto ciò non dà felicità, benessere, non libera. Carrère è un meditante della domenica che come noi è occidentale, laico, e in più cerca il riconoscimento, la fama, il successo, l’accrescimento e la consacrazione del suo ego. Tutto il contrario dello yoga, della meditazione, del tai chi, di tutto il pensiero orientale. Per Carrère la meditazione è niente più che “l’ennesimo giochino narcisistico. E questo mi rattrista”.
Lo yoga non è qualcosa che serve per mantenersi in forma, una ginnastica, e Carrère sembra averlo capito, ma anche lui pratica comunque per tenersi in forma e soprattutto per provare a gestire la propria mente. Pratica da occidentale, in modo laico, e non per interrompere il ciclo delle reincarnazioni, e quindi pratica mindfulness, che infatti è un’attitudine che s’impara a coltivare attraverso vari tipi di pratiche orientali (tra cui lo yoga), e che è nata in contesti ospedalieri per aiutare le persone a ridurre lo stress e a gestire dolori cronici, ansia, malattie psicosomatiche e molti altri disturbi.
Nella prima parte del libro Carrère è convinto di spiegarci cosa sia la meditazione mentre si trova a un ritiro vipassanā, di quelli di Goenka, famosissimo maestro birmano inventore di un metodo: dieci giorni intensivi di meditazione vipassanā dalla mattina alla sera. Un ritiro che sarebbe bene non abbandonare, nemmeno quando le cose sembrano mettersi male. Carrère ci va perché vuole capirci qualcosa riguardo alla meditazione, perché per il suo libretto “arguto e accattivante sullo yoga” gli serve un reportage in un posto del genere. Carrère arriva al ritiro fiero, raccontando di avere a casa pure un cuscino zafu, per dimostrarci che ci si siede dagli anni ’90, ma quando arriva nella sala della meditazione e vede (oltre agli zafu) dei grandi “cuscini piatti, quadrati, di circa ottanta centimetri per lato” non sa che quei cuscini sono zabuton. E va bene, ci sta, ma uno scrittore non dovrebbe almeno prendersi la briga d’informarsi, di trovare la parola giusta, corretta, una sola: zabuton? E non, come quando ci riprova:
L’area delimitata dai loro cuscini quadrati, che hanno la stessa funzione del tappetino delle lezioni di yoga: tutti i movimenti dovranno essere fatti in questo spazio, senza mai varcarne i margini, senza sconfinare in quello altrui”.
Carrère pratica anche tai chi, dice quattro frasi pure sul tai chi e vuole venderci che cos’è il tai chi. Poi dice di fare Iyengar yoga, una delle forme moderne di Haṭha yoga, ma che Carrère vuole venderci come l’unica forma di yoga esistente buona e giusta, cosa che non è e non è mai stata ma siccome la pratica lui e conosce quella, allora è il meglio. Così come vuole venderci che la vipassanā se la sia inventata Goenka, quando la vipassanā se l’è inventata nientepopodimeno che il Buddha -più avanti vuole venderci pure la scuola di scrittura creativa di Baricco perché si conoscono, ma andiamo avanti. A un certo punto Carrère scrive quattro righe anche sul bardo de Il libro tibetano di morti immaginando Goenka praticare questo rito, mentre gli sussurra all’orecchio quello che andrebbe sussurrato al morente, peccato che Goenka non sia tibetano ma birmano e che appartenga al buddhismo Theravāda e non Vajrayāna, il buddhismo tibetano, considerato il veicolo del diamante (il piccolo veicolo è quello Hīnayāna, di cui è rimasto il Theravāda, il grande veicolo è il Mahāyāna, che si è diffuso anche in Tibet, poi diventato, appunto, Vajrayāna).
Inoltre, quando parla di Patañjali, usa la parola nirvāṇa, che è usata nel buddhismo, invece di usare la parola più appropriata dell’induismo: mokṣa, liberazione. Ma d’altronde, a Carrère piace farla facile, e scrive:
“A questo punto sapete tutto: lo yoga è l’arresto delle fluttuazioni mentali.”
Fatto. Finito. Secoli di storia, filosofia e religione liquidati così. Il punto è che va bene, per un meditante della domenica è perfetto, per uno che scrive:
“Trovo che sia già molto conquistarsi con la meditazione un po’ di stabilità psichica e di profondità strategica”.
Insomma, praticare mindfulness e non yoga. Ma lui stesso continua a considerare la mindfulness “inferiore”, nonostante inconsapevolmente continui a praticarla. Non sa nemmeno la differenza tra meditazione concentrativa e analitica, tra samatha e vipassanā, e continua a confonderle per tutta la durata del libro. Poi comincia a chiedersi se uno scrittore possa meditare, non capendo che la scrittura può essere una forma di meditazione a tutti gli effetti, come ci insegna anche il poeta e maestro Zen, Eihei Dōgen.
Più avanti dice che nello yoga è importante venire corretti da un maestro durante i corsi, ma questo è valido soltanto per alcune scuole moderne di yoga, per la maggior parte non ha nessuna importanza fare la posizione in modo “corretto” perché non ha senso, perché la meditazione è yoga e lo yoga è meditazione, non ginnastica. E in realtà non ha nessun senso nemmeno tenere le posizioni il più a lungo possibile. Carrère capisce di essere in cammino, verso cosa non lo sa, come d’altronde non lo sappiamo noi occidentali alle prese con discipline millenarie e orientali complicatissime e distanti anni luce dal nostro modo di vivere e pensare. Capisce che la questione “salute, tranquillità e benessere” sono niente più che effetti collaterali, perché lo scopo della meditazione e dello yoga non è questo. Lo scopo è lo scopo senza scopo. Per Carrère non c’è nessun problema nel mollare la pratica, alzarsi e andare a controllare la mail, perché non siamo mica monaci. Deride i discorsi sul “qui e ora” e il “lasciar andare” perché più avanti si rende conto che lasciar andare è la cosa più difficile da fare e che proprio non gli riesce, come non gli riesce espirare (per questo voleva intitolare il libro “L’espirazione”). Perché è molto più facile prendere, inspirare, restare attaccati ai piaceri della vita invece di lasciar andare, abbandonare, dare, espirare, morire.
Alcune sue frasi sulla meditazione sono anche interessanti, “argute”, ci mancherebbe, ma in tutto il libro si percepisce la sua arroganza, il suo ego strabordante, il suo cercare a tutti i costi di sembrare intelligente, in gamba, bravo, buono giusto, migliore. Spara a zero su molti, su quelli che non gli piacciono, che non la pensano come lui, giudica con cattiveria… e poi capisco: anch’io all’inizio ero come lui. Quando iniziai a meditare e praticare yoga, tutti mi sembravano degli “invasati”, come li chiamavo io. Parlavano di robe strane, esoteriche, di Assoluto, di reincarnazione, di energia, di new age, e capii ben presto che prima di tutto gli occidentali erano molto confusi, e poi che effettivamente se si praticano yoga e meditazione in modo “ortodosso”, non si può lasciar da parte la componente spirituale, perché lo yoga e la meditazione sembrano essere nati proprio come mezzi per comprendere la verità ultima, interrompere il ciclo delle reincarnazioni e non rinascere più. Impiegai anni di studio per cominciare a capirci qualcosa d’induismo e buddhismo e sono comunque agli inizi.
Capii anch’io che non stavo praticando yoga e meditazione (che poi sono la stessa cosa, sia chiaro), e quando scoprii la mindfulness trovai la mia strada, perché Kabat-Zinn alla fine degli anni ’70, aveva liberato queste pratiche della loro componente spirituale, proprio per permettere a tutti di iniziare a meditare ma con altre intenzioni, quelle di Carrère, quelle mie, quelle della maggior parte degli occidentali, di noi nevrotici: gestire lo stress, la propria mente, prendersi cura del corpo. E non c’è nulla di male in questo, perché mica siamo induisti o buddhisti, e se l’Oriente ci ha fatto questo dono gliene siamo grati. E Carrère pratica per una mezz’oretta al giorno, che sia yoga, meditazione o tai chi fa lo stesso. A volte non fa nulla per mesi, poi riprende. È contento di rimanere sul sentiero dei “meditanti della domenica”, ma allora, perché un ritiro di Goenka di dieci giorni? Lo dice Carrère stesso: per scrivere un libro. Non so chi abbia messo in giro la voce che questo libro parli di yoga,ma chi lo ha fatto è un genio del marketing. Carrère in realtà parla di se stesso:
“E in più, mi dicevo nel mio avido foro interiore, oggi un sacco di gente fa yoga, un sacco di gente sarebbe contenta di capire meglio quello che fa facendo yoga: questo libro potrebbe sbancare”.
Ed è buffo, perché per saperne di più non decide di andare a un ritiro di yoga, ma di meditazione vipassanā del buddhismo Theravāda.
Ne sapeva troppo poco di discipline orientali per scriverne un libro, e in più, dopo pochi giorni dall’inizio del ritiro di vipassanā, Carrère viene avvisato della strage a Charlie Hebdo e abbandona il ritiro. Ci tornerà in un secondo momento, ma non farà nessuna differenza. Carrère si accorge di aver imboccato la strada sbagliata. Il suo libro sullo yoga inizia a sembrargli un progetto assurdo e in più capisce che la sua vita, che fino a quel momento gli era parsa tranquilla e felice, in realtà non lo è, e forse non lo è mai stata. Carrère non è una persona semplice, nessuno di noi lo è, e per la maggior parte è difficile abbandonare l’attaccamento e il desiderio.
Tanti fanno un grave errore, quello di credere che meditare serva a stare bene, a sentirsi in pace, ma l’obiettivo non è trovare un posto sicuro e piacevole in cui rifugiarsi. Carrère vorrebbe essere un uomo buono, migliore, non si accetta per quello che è. Vorrebbe avere meno pensieri, ed è ossessionato dal voler essere un grande scrittore, e ritiene che la sua ragion d’essere sulla terra sia scrivere. Una vocazione, ma allo stesso tempo una condanna. Vuole essere un uomo migliore per essere uno scrittore migliore. Niente di più lontano dalla meditazione, dove non si cercano risultati, dove l’Io va trasceso, abbandonato, distrutto, perché è soltanto un’illusione, un’etichetta, come tutto il resto. E allora Carrère lascia il ritiro e torna nel mondo giudicando quei meditanti che nemmeno sono venuti a sapere della strage a Charlie Hebdo. Ed è un taxista a dirgli forse la frase più saggia: “Se lo avessero saputo, sarebbe cambiato qualcosa?”
Carrère si ricorda anche di un gruppo di ayurvedici che in Sri Lanka, quando ci fu lo tsunami, continuarono a occuparsi del proprio corpo e spirito in hotel, nonostante fuori ci fosse l’apocalisse. Cita una storia dell’asceta Sangamaji, che aveva avuto una donna e un figlio prima di ritirarsi a meditare. Quando la donna si trova indigente e lo va a cercare per chiedere aiuto, l’asceta non cede, continua a meditare, e il Buddha si complimenta con lui. Carrère è sconvolto da questa storia ma forse non sa che anche il Buddha aveva una moglie e un figlio che abbandonò per trovare una soluzione alle sofferenze del mondo. “Con il mio libro arguto e accattivante sullo yoga ero un po’ nella merda”.
Se ne rende conto, lo capisce, perché per noi occidentali è difficile comprendere che la vita che tanto amiamo e bramiamo per induisti e buddhisti non è altro che qualcosa da abbandonare il più presto possibile, che la vita è sofferenza, e che lo yoga e la meditazione servono proprio a comprendere questo, sono mezzi per liberarsi della vita, per non reincarnarsi più, non per stare meglio in questo mondo. Se non hai capito questo, non hai capito niente. Siamo tutti principianti, e continuando a leggere inizio a provare compassione per Carrère, perché lo vedo stritolarsi tra le pagine, cercare di scrivere “un libro arguto e accattivante sullo yoga” e non riuscirci. Lo vedo scrivere e parlare male di tante cose perché non le comprende, perché ha paura, è terrorizzato, ha paura di morire, ha paura di non lasciare un segno indelebile su questa terra, di non diventare abbastanza famoso da essere ricordato in eterno. E allora insulta, critica, se la prende, si disintegra.
E quando nella seconda parte del libro il suo male di vivere viene rinchiuso nella categoria “disturbo bipolare di tipo II”, si sente meglio, si affida, si fa fare tutto, pure l’elettroshock, perché le etichette confortano, perché vivere è troppo difficile, a volte, lasciar andare, impossibile. E quindi eccolo lì, con i suoi anni di meditazione sulle spalle, steso su un lettino, quasi incapace, pur essendo un grande scrittore, di descrivere cosa gli sta accadendo, perché fa troppo male, perché gli hanno fritto il cervello, perché la vita è così. Un’altra cosa che Carrère non sa è che per uno nelle sue condizioni la meditazione sarebbe da evitare. Solo il protocollo MBCT basato sulla mindfulness, che negli anni ha accumulato numerosi risultati scientifici, potrebbe fare al caso suo, ma solo una volta che si sarà ripreso, perché quello che non sa -e infatti a un certo punto se lo chiede- è che la meditazione non è adatta per gli schizofrenici, per chi ha appena avuto un lutto, per chi ha tendenze suicide o per chi è nel pieno di una depressione profonda: “Anche una schizofrenica può fare yoga?”, “Mi chiedo come possa essere la meditazione per uno schizofrenico.” Non può e non deve essere, questo è il punto. E anche il protocollo MBCT può essere frequentato per evitare le ricadute soltanto da chi è già fuori dalla fase acuta della depression
e.
La terza parte è noiosa. Sembra il classico scrittore snob intellettuale di sinistra francese che va a cercare se stesso e la gioia di vivere in un’isola piena d’immigrati, a Leros. Oltretutto, l’ex moglie, quando è uscito Yoga, ha detto che in realtà Carrère su quell’isola ci sarebbe stato tre giorni, non tre mesi, ma chissà dov’è la verità. Ad ogni modo, in questa parte Carrère racconta della sua permanenza a Leros cercando di far vedere che gli interessa qualcosa di quei ragazzini abbandonati a se stessi, ma per farlo cosparge tutto di una retorica a tratti imbarazzante. Un viaggio utile, però, a raggiungere quest’illuminazione:
“Trent’anni a perseguire la calma e la profondità strategica, trent’anni a raccontarmi la mia vita come un progressivo sottrarmi alla confusione e costruire con pazienza uno stato di meraviglia e serenità. Trent’anni in cui ho creduto davvero, nonostante i cedimenti e i periodi di depressione, e proprio quando ero giunto al traguardo, all’approssimarsi della vecchiaia, quando avevo una casa, una famiglia, tutto per essere saggio e felice, mi ritrovo solo, accoccolato in posizione fetale in un letto a una piazza, nella casa vuota di una donna sola e perduta, partita anche lei senza lasciare un indirizzo per chissà quale posto nell’emisfero meridionale. Non è granché come bilancio. Non è una buona pubblicità per lo yoga. Ma sbaglio a dire questo: lo yoga non c’entra niente, il problema sono io. Lo yoga tende all’unità, e io sono troppo diviso per raggiungerla.”
Trent’anni di yoga, tai chi, anni di analisi, una decina di elettroshock per capire che la meditazione non aggiusta, ti fa vedere le cose così come sono. Trent’anni per poter dire: “La meditazione è pisciare quando si piscia e cacare quando si caca.” Trent’anni per scoprire che battere a macchina con dieci dita può essere la “forma più personale ed estrema di yoga.” Trent’anni per capire che la morte, per chi sa cogliere la bellezza della vita, sembra la cosa più ingiusta e inaccettabile che ci sia, soprattutto se sei un privilegiato, ricco, scrittore, famoso, piacente. Non a caso molti accademici che studiano le filosofie orientali spiegano che alla fine è molto più facile accettare la vacuità se si è poveri, se si vive in condizioni pietose, se si soffre la fame.
Queste filosofie sembrano essere nate in momenti di grandi carestie ed epidemie dove la gente moriva come mosche. E allora ci credo che è meglio la morte, l’estinzione, non rinascere mai più. Carrère alla fine torna ad amare, scopre di poter essere a tratti felice. In fondo non vorrebbe altro che vivere a lungo e in salute, sereno, e che la morte non esistesse. Cosa sono lo yoga, la mindfulness, la meditazione? Chi se ne frega. Ha davvero importanza per chi ama la vita? Come conclude Carrère parlando di una ragazza che conosce da poco -ma inconsciamente parlando di se stesso:
“Quando torniamo in paese, a casa, fa un po’ di yoga. Non lo yoga solenne, non lo yoga meditativo che ha come scopo l’estinzione delle vritti, l’uscita dal samsara o la costruzione, lungo una vita intera, di uno stato di meraviglia e serenità. Non lo yoga al quale pensavo di dedicare questo libro spiegando seriosamente che non va confuso con una volgare ginnastica, bensì quello che praticano in tutto il mondo le ragazze che, come lei, lo considerano una splendida ginnastica, ragazze a cui di Patañjali non importa niente e che non hanno nessuna voglia di uscire dal samsara perché il samsara altro non è che la vita e, contrariamente a quanto dicono Patañjali e i suoi, la vita è bella. Non solo bella, certo, ma bella. E trovo generoso da parte sua, se si considerano i miei conti in sospeso, avermi dato un’altra chance”.