“Noi non temiamo la morte, voi morite di paura”. Intorno a “Bardo”, di Alejandro Iñárritu

 In IL SETACCIO

Sto leggendo di tutto sul nuovo film di Alejandro Iñárritu, Bardo, la cronaca falsa di alcune verità. Pochi stanno gridando al capolavoro. Molti lo stanno massacrando, altri dicono che non ha alcun senso, altri ancora che il regista questa volta non ha avuto uno straccio d’idea, che è autoreferenziale, egoistico, incerto. Forse se ne sta parlando male perché semplicemente molti non hanno capito che i riferimenti da cercare non sono solo nel cinema ma nei testi buddhisti.

Iñárritu ha detto di aver fatto questo film con il cuore e non con le parole, ed è vero, e si sente. Infatti, anche il protagonista, il giornalista e documentarista Silverio Gacho, interpretato dall’attore Daniel Giménez-Cacho García, a un certo punto dice che è stufo di dire cosa pensa e non cosa sente.

Appena intuisci cosa ha voluto fare Iñárritu, qual è, forse, la chiave di lettura, avviene una specie d’illuminazione.

Iñárritu ha compiuto una sorta di trasposizione cinematografica di due ore e quaranta e dalla fotografia sublime de Il libro tibetano dei morti in versione Better Call Saul. Forse non sarà il suo capolavoro, ma credo che Bardo verrà apprezzato e rivalutato negli anni a venire, diventerà una chicca del cinema, e, in realtà, lo è già.

In Tibet ci sono quattro scuole buddhiste, quella dell’ordine Nyingma ha dato vita a un’opera famosissima: il Bardo Thödol, conosciuto in Occidente come Il libro tibetano dei morti. Parte del Bardo Thödol è andata perduta, ma quella reperibile è affascinante ed enigmatica, onirica, surreale, proprio come il Bardo di Iñárritu.

I versi di questo testo devono essere recitati alla persona che giace sul letto di morte per mostrargli la corretta via per raggiungere quella che viene definita la Chiara Luce. Come ho spiegato anche nel mio libro Il Pensiero Tibetano, ci sono preghiere e mantra da recitare, divinità da visualizzare, immagini, luci e colori cui è bene prestare attenzione. Ma si dice anche che il morente, a causa della forza del desiderio, della brama, dell’attaccamento alla vita, che in prossimità del trapasso seducono con tutta la loro potenza, avrà difficoltà ad ascoltarli: e allora dovrà impegnarsi, avere fede, essere devoto e saggio.

Non tutti avranno la forza e il coraggio di affrontare questo viaggio che può durare qualche istante o 49 giorni; non tutti riusciranno a non reincarnarsi più. Perché questo è l’obiettivo: seguire la Chiara Luce per non finire in un altro utero. Così è anche per il bambino che nasce nel film, il figlio di Silverio Gacho. In una delle prime scene si vedono dei medici che dopo il parto appoggiano il neonato su un tavolo, e poi si rivolgono alla madre: “Non vuole uscire, vuole restare dentro, dice che il mondo è una merda”. La vita è sofferenza, come ha insegnato il Buddha.

La scena che segue è fantastica: il bambino viene rimesso veramente nell’utero materno.

Molte altre cose si capiranno guardando il film, ma non voglio anticipare troppo e togliere pathos a scene successive molto commoventi.

Il Bardo Thödol cita:

“Con queste istruzioni anche chi è dotato delle più modeste capacità sarà salvo. E tuttavia alcuni, pur avendo ascoltato più e più volte queste parole, sgomenti dalla potenza demoniaca del loro karma o per avere infranto i voti, non riconoscono la luce e fuggono dai suoni e dall’esplosione radiosa, posseduti dagli incubi di avidità”.

Il corpo è già morto, ma i vivi ancora gli parlano. Il karma va purificato, la mente deve tornare nella sua condizione originaria: alla vacuità.

“Oh figlio, una luce folgorante di cinque colori, pura, vibrante e gloriosa forma della Saggezza innata del tuo karma, ti sprofonderà nel cuore dal cuore dei Cinque Vidyādhara come un ordito di raggi abissali e i tuoi occhi non potranno sopportarla. In quell’attimo, insieme alla luce della Saggezza sorgerà anche la torbida luce del Regno degli Animali. Allora il potere illusorio del karma ti farà sgomento della luce di cinque colori, ne avrai paura e guarderai con nostalgia il tenue lucore degli animali. Non temere il radioso splendore della luce dei cinque colori, non averne paura ma riconoscila come Saggezza.

Nel vortice balenante di quella luce esploderà il suono del Dharma come frastuono di mantra, di urla e grida di orrore, disperse sull’abisso. Non averne paura, non fuggire, riconoscile come spontanea illusione della tua mente.

Non indugiare davanti alla torbida luce verde. Se ti lascerai sedurre cadrai nel Regno degli Animali e proverai le angustie dell’eterna ignoranza, della schiavitù e del silenzio. Non cadere, non lasciarti attirare! Entra nella radiosa Luce dei Cinque Colori, medita profondamente sulle celesti legioni, sui divini maestri, i Vittoriosi Vidyādhara e pensa: Vidyādhara, eroi, Dākini, che venite a invitarmi dai beati paradisi della Gioia Celeste, ecco la mia preghiera! Volgete il vostro sguardo pieno di misericordia verso le creature che con me non hanno maturato il buon seme. La Luce delle Cinque Famiglie misericordiose dei Tathāgata dei Tre Tempi ha brillato più volte davanti ai nostri occhi ma noi non abbiamo saputo riconoscerla.

Oh divini Vidyādhara, non lasciate che io vaghi ancora più in basso, raccoglietemi nei beati Paradisi della Gioia Celeste”.

Il Bardo è un limbo, un luogo di attesa, dove però non si aspetta senza far nulla. E come nel film, i viaggi e le avventure della persona che si trova nel Bardo sono avvincenti, pericolose e apparentemente strane. Sembra di vivere un grande sogno. Il lama, al cospetto del defunto, invita a non seguire il flusso illusorio dei pensieri. Si deve restare calmi, si deve lasciar andare, il rischio è la rinascita in uno dei Sei Regni (deva, o mondo degli dei; asura, dei inferiori; uomini; animali; preta, o mondo degli spiriti; naraka, dannati). Il richiamo alla vita è pura volontà di potenza, che qui va ad ogni costo contrastata. L’estinzione è la liberazione.

Ma Bardo di Iñárritu non è solo questo: è anche un film che parla d’importanti temi sociali; è anche esistenzialista. Credo che la serie Better Call Saul, il prequel/sequel di Breaking Bad, sia comunque di una grandezza inaudita, anche messo a confronto con questo film. Better Call Saul non è solo una serie, è un vero e lungo film d’autore che purtroppo a un certo punto finisce. La durezza e la profondità con cui si parla del cartello, d’immigrazione, di problemi sempiterni tra messicani e statunitensi, Bardo non ce l’ha o ce l’ha solo a tratti.

Iñárritu ha voluto fare un’altra cosa, parlare anche di sé e di vita e di morte, argomenti bistrattati negli ultimi anni. Sembra quasi che se non si parla di ambientalismo, di ricchi brutti & cattivi, di resilienza, di sessismo, di sostenibilità ecc., non si possa più fare arte, cinema, libri. Non si può più parlare di un solo uomo, ma solo di umanità, non capendo che l’essere umano è rappresentazione del nostro essere tutti umani in questo mondo. Ma come siamo arrivati a questo punto? Ce lo dice Iñárritu stesso in una scena epica che poi diventa grottesca: “Le idee sono i nuovi dei”, e troppo spesso idiozie passeggere. Le ideologie hanno preso il posto di quel Dio che abbiamo ucciso da tempo, per le quali, se non si possono più uccidere coloro che non la pensano come noi, almeno si possono emarginare.

Il dialogo più illuminante e angosciante è quello che avviene all’interno di una prigione tra un narcotrafficante e Silverio Gacho, che sta girando il suo documentario:

“Non hai paura?”
“Di cosa?”
“Di morire?
“La morte per voi è un dramma cristiano. Un infarto nel proprio letto. Per noi, è il pane quotidiano. Essere gettati in una fossa comune. Qui in carcere nessuno può venirmi ad ammazzare. Ma io posso mandare qualcuno a uccidervi. Io ero povero. Invisibile. Per decenni, mi avete ignorato. Ora sono io a
tenervi per le palle. Siamo delle bombe ambulanti. Siamo milioni nei villaggi poveri. Siamo proprio in mezzo al paradosso. Siamo una nuova specie. Una bestia diversa. Non siamo come voi”.
“Cosa avremmo dovuto fare?”
“Voi intellettuali adorate parlare di lotta di classe, di emarginati. Poi arriviamo noi. I proletari, gli avviliti, gli sfruttati, sono storia vecchia. Qualcosa di nuovo sta crescendo là fuori, nel fango, educata nel più assoluto analfabetismo. Si insinua negli angoli della città. Siete davanti a una storia di post-miseria”.
“Cos’è cambiato nelle periferie?”
“Il denaro contante. Ora abbiamo milioni. Voi siete tutti in bancarotta e siete governati da incompetenti. Noi abbiamo metodi agili, voi siete lenti e burocratici. Noi non temiamo la morte, voi morite di paura. Noi siamo ben armati, voi avete le calibro 38. Noi siamo all’attacco, voi in difesa. A voi piace essere umani, noi siamo crudeli e senza pietà. Voi ci avete reso delle superstar, noi vi abbiamo reso dei pagliacci. Noi siamo aiutati dalla povera gente che, per paura o amore, vi odia. Siete regionali, provinciali, nazionalisti, corrotti. Abbiamo 50 milioni di gringos drogati. Le nostre armi vengono da fuori, dagli USA, siamo globali. Noi non ci dimentichiamo di voi, i nostri clienti. Voi ci dimenticate una volta passato lo shock della nostra violenza”.

Un monologo degno di un Joker, come quando Joaquin Phoenix, nel dialogo finale con Robert De Niro, dice: “Murray, ti capita mai di uscire dallo studio? Sono tutti lì a strepitare, a urlare uno contro l’altro, non c’è più nessuno educato, nessuno più prova a mettersi nei panni dell’altro. Credi che uomini come Thomas Wayne si chiedano cosa voglia dire essere uno come me? Essere una persona diversa da loro? No, non lo fanno. Sono convinti che ce ne staremo lì seduti in silenzio come bravi bambini, che non ci trasformeremo in lupi mannari […]. Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io cosa ottieni, ottieni quel cazzo che ti meriti!”.

Personaggi che ricordano anche lo spietato Lalo Salamanca di Better Call Saul, che uccide a sangue freddo, perché, come tutti quelli come lui, non ha più nulla da perdere (Luis, nemico e collega di Gacho, somiglia a Salamanca, hanno pure voce e modi molto simili).

C’è una frase ne Il tè nel deserto di Paul Bowles, che viene detta da un uomo, Amar, a Kit, la protagonista:

“Perché hai paura? Lo so. Perché sei ricca. Perché hai una valigia piena di denaro. I ricchi hanno sempre paura”.

Oltre al tema del Bardo buddhista, è anche questo il messaggio del film: quando (e se) gli emarginati, i veri poveri, gli immigrati – coloro che, da pochi sparuti individui e organizzazioni, vengono spesso fintamente protetti, curati e aiutati – si ribelleranno, daranno il via a una vera e onesta rivoluzione, porranno fine al vecchio capitalismo e uccideranno pure gli ormai fievoli ideali del comunismo, allora sì che ci sarà un nuovo Giudizio universale. E nessuno potrà fermarlo. E nessuno verrà risparmiato. L’epoca dell’ipocrisia cesserà. L’Occidente morirà. Speriamo almeno che sia rapido.

 

Articolo tratto dalla rivista culturale Pangea.news

Recommended Posts
Contact Us

We're not around right now. But you can send us an email and we'll get back to you, asap.