Il Tao della fisica. “L’artista occidentale è come il monaco tibetano: entrambi intuiscono che forse c’è una realtà ultima, ma che è inspiegabile”…

 In IL SETACCIO

Einstein non riuscì mai ad accettare che “Dio giocasse a dadi”, ma pare proprio che invece sia così, e che addirittura, come disse Stephen Hawking, “Non solo Dio gioca a dadi, ma a volte ci confonde gettandoli dove non li si può vedere”.

Niels Bohr, invece, rispose a Einstein di “smettere di dire a Dio cosa deve fare con i suoi dadi”.

Richard Feynman fu più breve e laconico, e come dargli torto: “Credo di poter dire con sicurezza che nessuno comprende la meccanica quantistica”.

Tutte queste citazioni per dire che il caro Fritjof Capra, famoso autore de Il Tao della fisica, fa presto a dire di aver trovato similitudini tra la mistica orientale e la fisica quantistica. A volte sembra un po’ affetto d’apofenia nel voler cercare connessioni e significati a tutti i costi.

Continuiamo ad aver bisogno di credere in Dio, anche se sappiamo che una particella ha la capacità inspiegabile di trovarsi contemporaneamente in diversi stati finché non viene misurata; anche se sappiamo che senza osservatore, l’elettrone non è altro che un’onda di probabilità che ha in sé tutte le possibilità, ma che esiste solo quando lo si ferma e lo si osserva, e così la realtà. Noi siamo composti da elettroni, e quindi esistiamo solo se ci vediamo l’un l’altro.

Poi c’è l’entanglement, quel fenomeno in cui due particelle sembrano essere capaci di influenzarsi a vicenda, nell’immediato, ovunque si trovino, anche a distanze siderali.

C’è da andare fuori di testa, altro che Matrix e la teoria secondo cui la realtà tridimensionale che percepiamo non è altro che un ologramma che viene proiettato su una superficie bidimensionale che sta ai confini dell’Universo in continua espansione.

Alla luce di tutto questo, le intuizioni di Capra a volte risultano un po’ forzate. È bello immaginare che sia vero quello che scrive, un po’ come è bello pensare che alla fine verrà scoperta una Teoria del Tutto.

Capra dà anche per scontate un po’ troppe cose, e se uno non ha già masticato un po’ di fisica, farà davvero fatica a comprendere certi passaggi. (Consigliamo sempre la lettura del libro del Premio Nobel Leon Lederman, Fisica quantistica per poeti di cui abbiamo già parlato su Pangea).

Alcuni esempi proposti da Il Tao della fisica:

«Per usare le parole di Robert Oppenheimer: “Per esempio, alla domanda se la posizione dell’elettrone resti sempre la stessa, dobbiamo rispondere no; alla domanda se la posizione dell’elettrone cambi col passare del tempo, dobbiamo rispondere no; alla domanda se esso sia fermo, dobbiamo rispondere no; alla domanda se esso sia in movimento, dobbiamo rispondere no”. La realtà del fisico atomico, come la realtà del mistico orientale, trascende lo schema ristretto dei concetti opposti. Perciò le parole di Oppenheimer ci sembrano riecheggiare quelle delle Upaniṣad: “Costui si muove, Costui non si muove; Costui è lontano, Costui è vicino; Costui è all’interno di questo Tutto, Costui è anche all’esterno di questo Tutto”».

Un altro paragone che viene fatto è quello riguardo il vuoto, che viene definito in fisica uno stato che contiene la potenzialità di tutte le forme del mondo delle particelle, e che nel saggio cinese Chang Tsai viene definito pieno di ch’i.

Dobbiamo ammettere che delle similitudini ci sono. La visione del mondo nell’antichità non era molto diversa da quella che conosciamo oggi grazie alle scoperte del ventesimo secolo, le cui radici partono dalla filosofia greca.

Per colpa di Cartesio, però, in Occidente abbiamo iniziato a identificarci con la nostra mente, senza tenere conto di tutto, del nostro corpo, e di quello che ci circonda. In Oriente, invece, la concezione del mondo è ‘organicistica’: tutte le cose e tutti gli eventi percepiti dai sensi sono interconnessi, collegati tra loro, e sono soltanto differenti aspetti o manifestazione della stessa realtà ultima.

La nostra incapacità di cogliere queste interconnessioni, nella filosofia buddista viene chiamata avidyā, ignoranza, un’illusione che deriva dalla propensione della nostra mente a misurare e classificare.

La fisica è una roba da mettersi le mani nei capelli. Come diceva Bohr: “Se non siete scioccati, non avete capito niente”, e devo dire che una sera credo di averci capito qualcosa, perché sono uscita da una conferenza sulla fisica di Luca Perri al Planetario di Milano con le lacrime agli occhi, perché parlava di cose come: la realtà non esiste, è tutta un’illusione, è tutto frutto del caso. La coscienza forse non è altro che un processo quantistico. Esiste l’osservatore, che dà vita alla sua realtà soggettiva. Non c’è oggettività, e dietro la porta di casa non c’è niente finché non la apriamo. Là dietro c’è un guazzabuglio di possibilità, di confusione, di caos, al quale solo tu, osservatore, puoi dare consistenza.

La voglia di suicidio e la paura d’impazzire fu tanta.

Ma poi mi dissi che in fondo nessuno ha ancora la risposta definitiva, e forse non la avremo mai, e su una cosa gli orientali hanno ragione: anche se c’è una realtà ultima, probabilmente non potrà mai essere spiegata con le parole, con il linguaggio, nel modo in cui siamo abituati a pensare e riflettere. L’intelletto non basta. È roba da fisici scervellarsi per provare a comprendere. La razionalità è tipica di noi Occidentali. Per gli orientali, come scrive Capra, a un certo punto bisogna seguire l’intuizione, e infatti gli induisti hanno inventato i miti per spiegare il mondo; i cinesi e i giapponesi si servono dei paradossi, come i koan, rompicapo apparentemente privi di senso, che sono usati da molti maestri Zen per trasmettere il loro insegnamento.

Riguardo al buddismo, Capra lo definisce una sorta di psicoterapia, che non si è mai interessata a indagare l’origine del mondo, ma solo la condizione umana, una condizione di dolore e sofferenza. In questo caso l’intelletto è molto importante, ma poi deve essere abbandonato per raggiungere il «risveglio», la comprensione della realtà, che si manifesta come «essenza assoluta», indivisa e indifferenziata.

“La conoscenza assoluta è quindi un’esperienza della realtà totalmente non intellettuale, un’esperienza che nasce da uno stato di coscienza non ordinario, che può essere chiamato uno stato «meditativo» o mistico”.

“Tutte le volte che la natura essenziale delle cose è analizzata dall’intelletto, essa non può non apparire assurda e paradossale. Ciò è sempre stato riconosciuto dai mistici, ma solo recentemente è divenuto un problema interno alla scienza”.

Oltretutto, nello Zen, come nel buddismo, si dà grande importanza alla naturalezza e alla spontaneità, perché la nostra natura viene definita come originaria e perfetta, e che il processo di illuminazione consista semplicemente nel diventare ciò che già siamo fin dall’inizio.

Come disse il maestro Zen, Pochang: “È come cavalcare il bue in cerca del bue”.

Il Tao della fisica resta un libro che vale ancora la pena di leggere, nonostante sia nato negli anni ’70 nel periodo New Age. Dà spunti interessanti, e conduce a molte riflessioni, come per esempio chiedersi se poi ha davvero senso questa spasmodica ricerca di una realtà ultima.

Forse davvero hanno ragione gli orientali nel dire che bisogna liberare la mente umana dalle parole e dalle spiegazioni per essere felici, per essere dei liberati in vita.

Per Capra, cambiare la nostra visione del mondo, e cominciare a vedere armonia e interconnessione con tutto, con gli oggetti, gli animali, gli uomini, sarà il segreto per salvaguardare la nostra specie e il nostro mondo. Nell’epilogo parla proprio di una rivoluzione culturale che dovrà interessare l’Occidente.

Non sarà facile. Siamo divisi, soprattutto qui in Occidente, è vero, ma anche nel mondo islamico, in Oriente. Ognuno ha la propria visione del mondo, ognuno ha la propria fede, e tutti credono che sia la verità assoluta. Inoltre davvero poche persone s’interessano e sanno qualcosa di fisica, come se fosse una cosa da tenere nascosta. Stiamo addirittura andando verso i computer quantistici senza ancora aver capito cos’è la fisica quantistica.

La scienza continuerà a cercare una teoria che metterà d’accordo il mondo macroscopico e quello microscopico, che per ora funzionano in modo totalmente diverso, all’opposto.

Einstein non si arrese mai, e rifiutò la fisica quantistica fino alla morte.

La verità, per ora, sembra essere una sola, e cioè che nessuno sa perché siamo al mondo, perché esiste l’universo e perché funziona come funziona. Nessuno.

E quindi va bene Dio, va bene ogni credo, va bene l’ateismo, va bene tutto.

Magari un grande disegno c’è, ma davvero non siamo in grado di concepirlo, di spiegarlo. Forse non siamo qui per questo.

La vita rimane un mistero, nonostante tutte le scoperte scientifiche e tutte le intuizioni filosofiche e religiose, e questo non credo che debba condurre a una concezione nichilista o al concetto di assurdità della vita di Camus, in cui l’apparente “non senso” porta a giustificare l’autodistruzione o al concetto di augurarsi di vivere a lungo perché tanto poi dopo non c’è un bel niente.

La questione è diversa, la questione è capire che forse è il nostro attaccamento al corpo e alla vita come la percepiamo a essere sbagliato. Forse il nostro senso nel mondo è un altro, è qualcosa di etereo ed eterno che per una società materialistica come la nostra è inconcepibile e difficile accettare, e in questo gli orientali sono agevolati, forse hanno davvero capito prima di tanti altri i fondamenti dell’essere. Forse.

Noi occidentali abbiamo intrapreso anche un’altra strada per cercare risposte, e cioè quella dell’arte, che ci spinge a provare a descrivere il mondo con l’ispirazione e con il linguaggio metafisico.

L’artista occidentale non è molto diverso da un monaco tibetano: entrambi intuiscono che forse c’è una realtà ultima, ma che è inspiegabile, e che va oltre il linguaggio, ma cercano comunque di spiegare a sé e al mondo quello che percepiscono. Il primo con una musica, un quadro, un libro, il secondo provando a raggiungere l’illuminazione, e una volta raggiunta, come insegna il buddismo del Grande Veicolo, l’uomo, diventato Buddha, deve tornare tra gli uomini per aiutare anche loro a illuminarsi e non rinascere mai più.

L’opera d’arte e la meditazione provano entrambe a farci avvicinare al mistero.

La via dell’artista e del monaco sono entrambe vie spirituali.

Forse Dio c’è, forse no. Ma ci riguarda davvero?

Non c’è una via giusta o sbagliata, ognuno persegue ciò che ritiene giusto per sé, solo che in Occidente, a causa dell’eccessivo uso dell’intelletto e della razionalità, bisogna stare attenti a non cedere al disagio esistenziale e al male di vivere. Ci facciamo troppe domande che non riceveranno mai risposta, e su questo forse dovremmo prendere un po’ esempio dagli orientali.

Riguardo alla morte, invece, il pensiero del nostro Epicuro rimane molto valido: “Quando noi viviamo, la morte non c’è. Quando c’è lei, non ci siamo noi”.

Anche la morte, in fondo, non dovrebbe riguardarci.

Perché alla fine, come scriveva Albert Einstein: “La cosa più bella che possiamo sperimentare è il mistero; esso è la sorgente di tutta la vera arte e la vera scienza. Tutto il nostro lodato progresso tecnologico – la nostra molta civiltà – è come la scure nella mano di un criminale patologico. Dovremmo stare attenti a non fare dell’intelletto il nostro Dio; esso ha, certamente, muscoli potenti, ma nessuna personalità. L’uomo che considera la propria vita e quella dei suoi simili senza senso non è soltanto sfortunato ma è quasi squalificato per vivere”.

 

Articolo tratto da Pangea

“L’artista occidentale è come il monaco tibetano: entrambi intuiscono che forse c’è una realtà ultima, ma che è inspiegabile”. Dio gioca a dadi, Einstein flirta con il mistero, Fritjof Capra è più estremo di “Matrix”

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