Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza, recensione

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Un film che valeva la pena di andare a vedere solo per il titolo, senza neanche sapere di cosa si trattasse. Un film che valeva la pena di andare a vedere dopo aver visto soltanto un fotogramma, perché la stranezza e la bellezza di quelle immagini erano magnetiche. E siamo proprio andati a vederlo senza conoscere minimamente la trama. Un po’ per le immagini, un po’ per il titolo, e un po’ con la speranza che quando una pellicola vince il Leone d’Oro alla mostra del cinema di Venezia ne valga la pena. Era stato così osannato, l’anno scorso, che non potevamo esimerci dall’andare a vederlo.
Ma più che con un film, qui abbiamo a che fare con un’opera d’arte, con un vero film d’autore, di quelli impegnati, di quelli che porterebbe a dire a Fantozzi: “Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza, è una cagata pazzesca”, con applauso scrosciante finale. Alcuni, infatti, sono usciti dal cinema neanche a metà film… Gli sketch che il regista Roy Andersson ci propone, solo velati di una sottile ironia, ma in realtà c’è poco da ridere. I personaggi sono grotteschi, le vicende tragicomiche, ma il tutto nasconde -e non nasconde neanche più di tanto- l’assurdità e la miseria della vita umana. Ma bando alle ciance…

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Botti di metallo girevoli giganti in stile Anish Kapoor azionate da gente di colore accompagnata gentilmente dentro a suon di frustate. Fiamme che l’avvolgono. La botte gira. Trombe al di fuori. Si attendono grida disumane ma è una musica soave a uscirne. La borghesia, le persone ricche brindano davanti alla propria follia e all’atrocità umana. C’è qualcuno che dovrebbe chiedere perdono, che dovrebbe scusarsi… non è giusto che si approfitti dell’uomo per il proprio piacere…

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Man wearing a bonnet, Michael Borremans

Lo schermo: un quadro che prende vita. Bruegel si muove, ma anche il contemporaneo Michael Borremans. Sono lì, davanti a noi. L’intrattenimento rende la vita sopportabile, qui non c’è nemmeno quello. I piccioni ci guardano dall’alto e se la ridono. Ridono di noi, che ci affanniamo inutilmente. E che può pensare un piccione? Pensa che i soldi sono finiti e che non sono mai abbastanza. Solo silenzio. Il grottesco si scontra con la realtà dell’esistenza che un senso non ce l’ha, e la tremenda riluttanza del degrado, della povertà, del provare a cercare di sbancare il lunario, vendendo scherzi di carnevale assurdi, da però un senso alla vita, un motivo per alzarsi la mattina. Pensare di rivedere i propri genitori pure da morti? Pure di là? Ma anche no, cazzo, pure se son stati carini e gentili anche di là per l’eternità no! Solo le bambine che giocano con le bolle di sapone hanno vita, possiedono colore, colori normali e non kaki o grigio topo che rispecchia la verità incolore e insipida della vita. C’è poco di Monty Python, perché lì c’era quell’umorismo tipicamente inglese, qui solo una visione svedese surreale e triste come solo i cieli del nord sanno essere. Cavalli, cavalleria e un re che entra in un bar, scimmie sottoposte a esperimenti scientifici, l’animo sensibile di un uomo inconsapevolmente comico ma con la malinconia nel cuore di un clown, che ci fa vedere un mondo assurdo dove è bello che una ragazza incurante si tolga un sasso dalla scarpa sbattendola contro un chiosco e attirando l’attenzione di tutti. La vita è dura ma tutti la vivono, nella miseria o nella ricchezza. E le persone si telefonano per dirsi solo e ripetutamente e ipocritamente: “Sono contento di sentire che state bene” con voce piatta che ha perso ogni entusiasmo perché la vita a volte sa toglierti davvero ogni entusiasmo. E poi è di nuovo mercoledì e un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. E fanno fatica tutti a esistere, i bambini down, i vecchietti, soli e abbandonati come sono e che vivono di ricordi. Solo una madre e una coppia di fidanzati vedono i colori e vivono davvero, perché hanno un motivo, perché hanno ancora la speranza.

Cacciatori nella neve, Pieter Bruegel

Cacciatori nella neve, Pieter Bruegel

Qui non c’è musica, non ci sono auto, non ci sono cellulari, non ci sono megastore, è un medioevo moderno, dove esiste solo il presente e i pensieri diventano assordanti. Non ci sono distrazioni, si sentono le emozioni e i pensieri della gente, si vede il dolore, si sente e vede tutto. La morte qui, non da speranza, la speranza di un aldilà, di un Dio, di un “tanto ci rivedremo dall’altra parte”.

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Esci dal cinema e anche tu ti ritrovi a parlare senza entusiasmo. Rispondi a monosillabi e ti rendi conto di quanto tutto sia casuale. Esci, vai in bagno, mentre sei in fila, ti chiedi perché sei su questa Terra, e come in un déjà vu esce dal bagno lo stesso tizio che era uscito dal bagno prima che iniziasse il film. Eri lì, ad aspettare il tuo turno, ed era uscito questo ragazzo. Poi di nuovo, eri in fila ad aspettare il tuo turno ed esce di nuovo lui. È uno scherzo? No, è la vita, è il caso. E, da non crederci, oltre al perché siamo qui su questa Terra, mi stavo proprio chiedendo: “Pensa che cosa assurda se ora uscisse dal bagno lo stesso tizio di prima…”. Ed eccolo lì, spuntare fuori allo stesso modo. La vita è assurdamente casuale. Quante probabilità c’erano che accadesse?
Torni a casa pensando che la vita è davvero meravigliosa, assurda, grigio topo, ma meravigliosa. E forse il trucco è proprio godersela e pensare ogni giorno, per almeno un minuto, che moriremo, che si muore e basta, e non dimenticarselo. Alla Troisi: “Ricordati che devi morire!”, “Sì, sì, mò me lo segno proprio, non ti preoccupare.” Una cosa come un’altra da appuntare in agenda. Di tempo ce n’è poco e meno male che nella vita vera, a differenza del film, l’intrattenimento esista, così come il caos, se no chi vivrebbe più pensando che alla fine dobbiamo solo morire e che la vita, magari, è stata pure una merda?

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