Viaggio in Tibet (seconda parte)

 In IL SETACCIO

Seconda parte: Tibet

 

“Il lato scuro”

 

L’ansia non è la benvenuta in paesi come questo. Il cuore batte più del normale e hai la sensazione di soffocare.

I bagni sono dei tagli nel cemento, delle fessure dove non passa mai acqua e dove puoi vedere gli escrementi di chi è passato prima di te.

Le mosche ci volano sopra, poi passano al ristorante accanto, dove il pranzo viene servito tra sporcizia e mozziconi buttati a terra.

La cenere vola ovunque. La carne di yak è nauseabonda e dura.

Inizio a sentire la stanchezza, non basta la spiritualità in questa terra troppo seria, dove le dune di sabbia scivolano nei laghi al cospetto di montagne verdi di 5.000 metri che qui sembrano niente più che colline.

La sabbia è bagnata, gli alberi possono nascere nei prati. Ce ne sono di più grandi, più veloci e in forma, altri più piccoli e fragili, come tutte le creature.

Le nuvole mangiano le montagne.

Guardo Qomulangma, la grande sorella sacra, madre dell’universo.

Il sole la illumina, le nuvole non la sfiorano nemmeno, vanno, vengono, la ricoprono, poi scompaiono.

La luna della notte detta il suo profilo imponente. La punta è ben chiara all’orizzonte, il suo profilo è quello di una bella donna, della Madonna, di Dio. Ma questo vale per noi occidentali, per molti tibetani il monte sarà pur sacro ma è anche il muro più alto del mondo che li divide dalla libertà.

Un tibetano mima il gesto dei fucili guardando in alto e poi mi spiega che si potrebbe andare lassù, tutti insieme, armati, passare il confine, scavalcare quel diavolo di Himalaya ed essere liberi.

Resterà un sogno, un racconto sul quale tutti abbiamo riso, ma per un attimo ci abbiamo creduto, lo abbiamo sperato.

Ci siamo guardati negli occhi, abbiamo guardato il monte di fianco all’Everest, più basso, forse solo 7.000, e lo abbiamo immaginato possibile.

Poi l’amico dell’uomo che voleva fare la sparatoria ha guardato di nuovo Qomulangma, e sospirando ha detto: “questo è il mio paese”, un po’ arreso, un po’ fiero, un po’ sorridente.

Ci siamo fumati una sigaretta davanti a quello splendore che stupisce anche chi lo vede tutti i giorni e poi siamo andati a cena.

Perché qui, la neve sui picchi, ti ricorda l’ardore di un paese inginocchiato dal dittatore cinese.

Un uomo, a cena, ci ha raccontato di essere stato in carcere dieci anni per aver provato a combattere contro i cinesi negli anni ‘90, o meglio, solo per aver osato resistere.

Non possono uscire, sono bloccati, reclusi, prigionieri nella loro stessa terra.

Uno ci ha messo sedici anni per ottenere il passaporto, e solo per andare in Nepal o in India, altrimenti niente visto.

Anche chi è tibetano e se n’è andato anni prima e vuole rientrare è trattato come un delinquente, e a volte bisogna aspettare anni anche per tornare.

La bellezza, la compassione, il Buddha stesso, non bastano a nascondere i divieti, i controlli, le ingiustizie, la propaganda, il totalitarismo, l’occupazione che si respira a ogni angolo di strada.

Paesaggi immensi che non fanno dimenticare la sensazione di essere controllati a vista.

Non si può parlare con chi si vuole, non si può parlare con i monaci, non si può viaggiare da soli, non si possono avere immagini del Dalai Lama, non si può sventolare la bandiera, si deve parlare cinese, obbedire.

I cinesi costruiscono immensi palazzi, ponti, autostrade, solo per far sentire il loro potere.

Devono sapere dove sei, con chi sei, dove vai, dove dormi, cosa fai, cosa vai a vedere, perché, quando, che strada fai, quando te ne vai.

Un ragazzo italiano, in aeroporto, ha detto che prima di partire alzava il pugno chiuso, dopo quello che ha visto non si definirà mai più un comunista.

Qui sembra non esserci più salvezza, altro che Buddha.

A breve il Tibet sarà definitivamente il luna park del cinese medio in cerca di “spiritualità”, ma non potranno mai avere la dignità dei tibetani, di coloro che stanno in alto.

Ma in fondo, neanche la Cina esiste, è solo un aggregato come tutto il resto, un insieme di corpi che di per sé non esistono.

Ai tibetani la capacità di elevarsi e illuminarsi, ai cinesi altre mille di queste vite.

La verità non è per tutti.

 

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